SCUOLA/ Rav e formazione professionale, così gli “ultimi” diventano primi

Il volume "L'autovalutazione nell’istruzione e formazione professionale" contiene i risultati della sperimentazione del RAV in 173 CFP
Negli anni 2020-21 e 2021-22 si è svolta nella formazione professionale una sperimentazione del Rapporto di autovalutazione (RAV), già realizzato da tempo in tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado e giunto nel 2025 alla sua quarta edizione.
Il RAV è un documento potenzialmente piuttosto impegnativo in cui le scuole descrivono il contesto, l’utenza, l’offerta formativa, i processi organizzativi interni ed i loro risultati a partire da quelli INVALSI ed infine definiscono un Piano di miglioramento.
Dovrebbe servire a dare un ampio spettro di informazioni agli interessati, in primo luogo le famiglie, perché facilmente reperibile sul sito Scuola in Chiaro del ministero.
L’interesse per il libro che lo presenta, L’autovalutazione nell’istruzione e formazione professionale, a cura di Michela Freddano (Franco Angeli, 2025), supera il ristretto ambito degli specialisti perché l’introduzione in corso del cosiddetto 4+2, cioè di un percorso di formazione integrato di livello secondario e terziario, colloca a pieno diritto la formazione per il lavoro all’interno del Sistema nazionale di istruzione e perciò rende auspicabile che tutte le strumentazioni che vengono ritenute valide per il suo funzionamento vi siano utilizzate, a partire appunto dal RAV.
Si può aggiungere che il fatto che le attività si siano svolte in periodo Covid e perciò necessariamente a distanza attribuisce loro un’importanza anche metodologica, perché potrebbe costituire un punto di riferimento per una eventuale ripresa delle visite dei Nuclei di valutazione esterna previste nell’SNV, utili se non indispensabili per accreditare l’intero processo.
È stata anche definita, grazie alla situazione di emergenza, un’infrastruttura tecnologica di anagrafe e di compilazione del RAV e dei questionari sulla piattaforma propria del SNV utilizzabile anche in prospettiva.
Distratti dalle zuffe sulle Indicazioni nazionali e sugli esami di maturità potremmo dimenticarci di una cosa seria, cioè della necessità di costruire un livello dignitoso ed appetibile di formazione per il lavoro che eviti di farci precipitare nel sottosviluppo e di farci diventare il Paese dei cuochi, degli albergatori e degli influencer.

È sconcertante, se non ridicolo, che chi patrocina in ogni modo il diritto all’autorealizzazione, trasformando talvolta la libertà in licenza, riconosca diritto di esistenza e dignità solo alla formazione generalista, presunta fonte di vera cultura e spirito critico – di cui peraltro in giro non sembrano vedersi molte tracce – e non riconosca legittimità e valore ad altre vocazioni di carattere più operativo e vi veda anzi segnali di subordinazione culturale, se non morale.
Nella prefazione Arduino Salatin – deus ex machina del campo – ricorda che questa sperimentazione è stata preceduta dall’introduzione delle prove INVALSI anche in Centri di formazione professionale (CFP).
Del resto gli esiti di queste prove fanno parte integrante ed importante del RAV. Dal 2014 infatti un gruppo formato da INVALSI, ISFOL, Tecnostruttura, cioè il coordinamento delle Regioni sul tema, insieme con i Centri salesiani hanno curato la predisposizione e la somministrazione di tali prove all’interno del percorso annuale INVALSI.
Le sedi formative accreditate salesiane non sono certo le uniche valide, ma costituiscono un’organizzazione pedagogicamente solida e ben radicata sul territorio nazionale che non a caso ha individuato questa strada (prove INVALSI e RAV) per collocarsi all’interno del sistema di istruzione nazionale con piena dignità.
È importante in via preliminare sapere che le 173 sedi formative partecipanti alla sperimentazione non costituiscono un campione statistico significativo, ma sono state il frutto di una scelta volontaria di adesione. E che perciò i dati ricavati non sono generalizzabili.
La ragione? Non esiste una anagrafe nazionale della formazione professionale regionale. Responsabilità delle regioni che hanno inteso in senso deteriormente proprietario l’affidamento costituzionale? o del centro ministeriale che è stato sempre portato a considerare questo settore con diffidenza ed a non considerarlo come vera istruzione? Sta di fatto che la cosa ha dello sconcertante.
Nonostante ciò, questa prima raccolta di dati potrebbe costituire una base molto interessante per ricerche di approfondimento sul mondo della formazione professionale italiana. In generale si può dire che le sedi – che hanno aderito volontariamente – hanno mantenuto un impegno significativo in un periodo molto critico quale quello del Covid in una misura quasi completa, poiché il 97% è arrivato a compilare il questionario finale.
Si registra anche una tendenza ad un’autovalutazione positiva con un ampio utilizzo dei livelli più alti (5, 6 e 7) anche maggiore di quella generalmente registrata nel resto del sistema scolastico nazionale.
Altri elementi a disposizione da indagare: il livello registrato degli apprendimenti nelle prove INVALSI comparato con quello dei corsi del sistema di istruzione di livello socio-economico simile, i risultati delle prove di valutazione interna in relazione alla prosecuzione degli studi, l’orientamento scolastico successivo, l’inserimento nel mondo del lavoro, le pratiche didattiche e le pratiche gestionali ed organizzative in molte sue parti.
Un mondo poco conosciuto, quello della formazione professionale, si potrebbe dire. Un po’ perché emarginata da una cultura “alta” che non ha mai tenuto in considerazione la cultura dell’operatività, come invece avviene nei Paesi di tradizione protestante. Fa eccezione una parte del mondo cattolico rappresentato in questo caso dai salesiani, che soprattutto al Nord ha sviluppato una cultura del lavoro anche presente a livello sindacale.
Una cultura che viene dall’attenzione religiosa per gli ultimi, ma che mira ad emanciparli, diversamente da culture antagoniste che, esauritasi la tradizione marxista emancipazionista e produttivista, si direbbe mirino a farne il modello umano di riferimento.
Ma è anche la formazione professionale che, consapevole del contesto non favorevole, tende in molte sue parti ad isolarsi, a considerarsi come un mondo a parte dedito alla cura della marginalità, senza la volontà o la capacità di misurarsi con le culture sopra evocate.
La rivendicazione del diritto a riconoscere le vocazioni operative della persona, con pari se non talvolta superiore dignità, è forse la chiave per aprire la porta.
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